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TRENT'ANNI DI COOPERAZIONE

Riflessione tenuta giovedì 15 settembre 2016

di Giuseppe Di Muzio

Logo30Emmaus RidottoSono stato incaricato, in occasione del 30° anniversario di fondazione della cooperativa, di proporre qualche spunto di riflessione. Trent'anni sono tanti ed è doveroso fare festa. Ma questo dobbiamo farlo con l'attenzione a quelle che sono le sfide che oggi ci stanno davanti. Forse l'ultima potremmo individuarla in quel marasma di bene e di male che sono diventate le cooperative sociali oggi. Purtroppo, gente senza scrupoli, ha abusato della cooperazione sociale per i propri loschi affari, gettando un’ombra di discredito nei confronti di una realtà nata dalla pura intenzione di farsi solidale con i più bisognosi. Dal canto nostro non possiamo che ribadire la positività del nostro percorso, che vogliamo ancorato ai valori degli inizi, nel desiderio di trasparenza, di onestà e premura verso le persone fragili, cuore della nostra iniziativa. Ma chi siamo noi dopo trent'anni?

Se dovessimo chiederci quale sia oggi il volto della cooperativa cosa potremmo rispondere? Certo non è quello di trent' anni fa. Chi, come me, ha conosciuto la cooperativa quasi all'inizio della sua vita, fa fatica a riconoscere i tratti del suo volto. La vede ancora ferma sui principi originari di solidarietà e, tuttavia, nota il suo affaticamento perché, durante il suo percorso, molte cose sono cambiate e ci costringono a valutare nuove visioni, difficili da decifrare, per consentire la prosecuzione della nostra opera. Siamo quindi chiamati in questa operazione di discernimento, consapevoli di dover tener fede all'impegno della solidarietà di fronte alle nuove sfide di una società in rapida trasformazione sempre più orientata verso criteri di competizione. Credo siano tre gli ambiti in cui notiamo un cambiamento sempre più marcato rispetto agli inizi: Il lavoro, il rapporto con l'ente pubblico, il cambiamento culturale in atto.

L'intuizione originaria di don Ettore era chiara: riuscire a fare solidarietà attraverso il lavoro. Così il lavoro è diventato l'elemento indispensabile che ci permette ogni giorno di accogliere i nostri amici disabili: è attorno al lavoro che nasce il nostro "stare insieme". Ma certo il lavoro ha subito in questi anni una forte trasformazione. Senza voler entrare in questioni squisitamente economiche, ricordiamo che anche noi abbiamo subito gli effetti negativi della "delocalizzazione". Ditte che per anni ci avevano fornito lavoro, ora portavano parti della loro produzione in paesi in via di sviluppo, dove la mano d'opera era certamente meno costosa. Ma questa situazione ha cominciato a creare in noi una certa sofferenza. Una della caratteristiche della nostra cooperativa è sempre stata quella di non discriminare nessuno, in qualsiasi situazione si trovasse rispetto alla capacità lavorativa. Oggi questa scelta, seppur sempre valida, ci penalizza un po' perché se la mano d'opera resta sempre la stessa, diversamente accade per il lavoro che appare sempre più specializzato per cui si fatica a trovare attività che comportano un elementare approccio manuale. Trovare lavori semplici è diventato quanto mai complicato in un luogo dove, lo sappiamo, l'utenza ha una relativa capacità. Un lavoro apparentemente semplice e banale spesso si rivela alquanto difficile per i nostri lavoratori. Oltre al fatto che, soprattutto il lavoro di assemblaggio che ci consente di fare lavorare tutti, ha subito una grave perdita in termini di redditività. E' impensabile oggi chiedere ad una ditta quanto osavamo fino a quindici - vent'anni fa. Anzi, spesso i prezzi sono tassativamente imposti e quindi: prendere o lasciare. E con la difficoltà a trovare lavoro siamo costretti ad accettare tutto. Alla fine dell'anno ci troviamo con grandi quantità di lavoro realizzato ma con poca resa. E questo, capiamo, pesa sul nostro bilancio a fine anno. Occorre considerare anche qualche periodo di carenza di lavoro che, soprattutto a cominciare dalla crisi del 2008, tamponiamo con il ricorso ad attività diverse (orto, cucina, letture, proiezioni di film) che per quanto bene accolte, non sono lavoro remunerato che ci permettono di sanare le nostre sofferenze economiche.

Rimane la domanda, la sfida: come riuscire ad essere solidali dentro un mondo del lavoro sempre più competitivo?

Siamo consapevoli che non avremmo mai potuto fare solidarietà senza la collaborazione dei comuni del nostro territorio che hanno contribuito fattivamente all'inserimento al lavoro delle persone disabili. Ma, anche qui, forse a causa della crisi di cui parlavamo, ci sono stati dei cambiamenti sostanziali, per cui le difficoltà economiche degli enti hanno determinato una revisione al ribasso delle convenzioni, che va a penalizzare ancora la già fragile situazione dei disabili e delle loro famiglie. Anche in questo caso la solidarietà entra in competizione con necessità che di fatto la mettono ai margini. Tutto ciò genera in noi una sofferenza, poiché evidenzia una prospettiva che allontana sempre più le istituzioni dal reale bisogno dei cittadini più bisognosi. Ancora una sfida: è definitivamente conclusa o, per lo meno, molto compromessa la stagione dell'intervento pubblico nei confronti della disabilità?

Credo che questo aspetto sia quello più problematico. Occorre volgere lo sguardo al di fuori della nostra realtà. Ci accorgiamo di vivere in un contesto culturale che ormai sta diventando ostile alla solidarietà e ciò che un tempo era visto con simpatia e stima ora viene messo in discussione. Ci sembra di vivere nel tempo del ritorno degli "stigmi", di marchi veri e propri di una parte della popolazione nei confronti di altri, osteggiati per la loro disabilità, colore della pelle, provenienza geografica, etnia, orientamento sessuale. Quegli atteggiamenti deplorevoli che nei decenni scorsi, per pura vergogna, venivano relegati nelle profondità di se stessi, oggi sono resi pubblici con vere e proprie campagne dai media e permeano in modo virale le coscienze eliminando ogni titubanza verso nuove forme di barbarie. Un esempio per tutti. Durante l'estate il proprietario di un albergo di una località turistica si è sentito rimproverare da un cliente, per il fatto di non essere stato informato della presenza di un gruppo di disabili che avrebbero turbato la vacanza dei propri figli, per l'inopportuna visione. Qualcuno ha gridato allo scandalo ma mi piacerebbe sapere quanti, in realtà, nutrono questi pensieri nel proprio intimo. Stiamo forse scivolando verso un mondo senza umanità dove l'altro, il diverso da sé è considerato sempre un nemico da tenere fuori dalla propria vista? Paradossalmente chi rifiuta questa logica è tacciato di "buonismo". Persino papa Francesco!

Credo che questa sia la sfida più difficile e più preoccupante.

Occorre imparare dagli ultimi. L'altro giorno è apparsa su un giornale una lettera di

un fratello di un ragazzo disabile che mi ha fatto pensare.

"All'inizio - scrive questo ragazzo - avevo messo dentro Giò in una categoria: handicappato. Lo pensavo identico a tutti quelli che, come lui, avevano un cromosoma in più. Giò era tenero, lento ed aveva bisogno di una mano, come molte persone con la sindrome di Down. Mi ricordo che proprio in quel periodo mio fratello aveva conosciuto un americano al campeggio e appena ero arrivato, mi aveva parlato un po' di lui e mi aveva fatto vedere un loro selfie sul telefono, lo :- Ah ma è nero! Non avevo capito. Gio: No. lo:- Si, è nero.

Gio: No, non è nero, è carnivoro. Come me!

Ecco, Giò ci insegna che non dovremmo rimarcare quello che ci differenzia ma quello che ci unisce. L'amico americano era carnivoro come lui e quindi suo amico. Quando in cooperativa abbiamo accolto al lavoro diversi profughi negli ultimi mesi, stando a contatto con loro cosa abbiamo visto? Degli uomini, nient'altro che uomini, come noi. Anche questa, allora, è una sfida, forse la più difficile, perché ci fa remare contro vento, con fatica, contro la cultura dello scarto e dell'esclusione che va per la maggiore.

La cooperativa si deve ancora far carico di questa cultura della solidarietà e la sua, pur faticosa presenza, è lì a testimoniare, ancora oggi, che un altro mondo è possibile.

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