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CHE FATICA ESSERE UOMINI

RIUNIONE VOLONTARI 23 FEBBRAIO
 
Cantava Sergio  Endrigo  in una simpatica canzone di diversi anni fa: “che fatica essere uomini”. Ci siamo già soffermati nei nostri incontri su un grave pericolo del nostro tempo: perdere la capacità di restare umani. Non che nella storia non abbiamo avvertito la profonda disumanità di cui è capace l’uomo. L’odio, la violenza, le guerre che ci sono da che mondo è mondo. Non ultima la “shoa “ che rimane l’inferno  creato dagli uomini, il più terribile  esempio di disumanizzazione mai visto. Friedrich Nietzsche, un filosofo tedesco dell’ottocento, parlò di “morte di Dio”, cioè della necessità non più rimandabile da parte degli uomini di fare a meno di questa figura. Nietzsche con questa affermazione intende annunciare la fine di ogni realtà trascendente. Egli considera ciò come il compimento di un processo  necessario,  perché gli uomini possano assumersi la piena e definitiva responsabilità di ogni decisione, di ogni azione. Perché l’uomo, per essere veramente tale deve saper fare a meno di Dio.  Si rompe così la prima relazione fondamentale, quella dell’uomo con Dio. Ma si fa largo ormai da un decennio l’idea che anche una seconda relazione si stia progressivamente incrinando e si parla della “morte del prossimo”. Morte di Dio e morte del prossimo.  Queste due presunte morti, se vere, provocano una grande crisi nell’esistenza dell’uomo’ perché se l’uomo è essere di relazione, venendo a mancare i due poli relazionali (Dio e il prossimo) l’uomo si perde, cambia pelle, si disumanizza. Non so siete d’accordo, ma mi sembra di vivere in un mondo confuso, sempre più imbarbarito,  di avvertire un distacco dalle radici sane, spirituali e umane, della coscienza.
Prendiamo in considerazione alcune idee che ci danno la misura del pericolo della disumanizzazione.
 
La distanza
Le distanze, che la globalizzazione hanno reso meno evidenti, favoriscono rapporti tra persone lontanissime (pensiamo a quanto le tecnologie, come skype ci mettono in contatto con tutto il mondo in modo diretto e vedendoci) ma sembrano penalizzare i rapporti tra i vicini, quelli che vivono nella propria città o paese, nella stessa via, nella medesima casa. L’altro “vero”, quello reale, si perde,  e con lui si perde il senso di appartenenza ad una comunità. I paesi che abbiamo davanti diventano dei dormitori. Ognuno ha la sua vita che non mette in comunicazione con l’altro. E si corre il rischio di cadere in una fondamentale solitudine.
I giovani che crescono in questo contesto, dentro nel circolo vorticoso della conoscenza attraverso la tecnologia, corrono il rischio di non conoscere nemmeno l’esistenza del “prossimo”. Mentre la maggior parte degli altri, non solo anziani ma anche quarantenni, da una parte sono sempre più presi da attività concentrate sul fisico, il fitness ecc, mentre dall’altra perdono interesse verso gli uomini che hanno vicino, non per malvagità, ma perché non li capiscono. Se questo in una certa misura è avvenuto in ogni epoca non può sfuggirci la certezza che nonostante tutto era più facile continuare ad essere società e umanità.  Scrive a questo proposito Luigi Zoia un attento analista della società:
“Gli obblighi reciproci, la pietà, la compassione circolavano, potevano continuare ad esistere e, a volte, essere creduti amore. Da quando il mondo si è fatto laico (senza per forza condividere posizioni antimoderniste n.d.r.) e ogni cosa ha perso l’incanto divino ed è divenuta misurabile. Gli atti ripetitivi degli altri non sono più considerati rito, ma isolata nevrosi, ossessività, rigidità cadaverica. Il prossimo si è trasformato in lontano, uscendo dallo spazio. E il vivo in morto, uscendo dal tempo”.
 
Ora, questo discorso può sembrare strano e voi potrete chiedervi: cosa c’entra questo discorso con la cooperativa Emmaus, con l’impegno di volontariato che svolgiamo all’interno della cooperativa? Io ritengo che centri moltissimo. Dobbiamo ritenere che mentre la tendenza dominante va chiaramente verso la “morte del prossimo”, l’esperienza cooperativa continua ad affermare che la sua esistenza si concentra invece sul suo contrario, proprio sul fatto di mettere al centro “la vita del prossimo”. Consentitemi un riferimento  biblico. Nel nuovo testamento qui e là troviamo la parola “perseveranza” che significa stare saldi, mantenere la posizione senza retrocedere, resistere. L’esperienza che facciamo in cooperativa si inserisce in questa linea di resistenza a questa temperie culturale che ci sta disumanizzando.
E mentre mettiamo al centro la vita delle persone più fragili che ci onoriamo di servire, ripetiamo che valori come solidarietà, attenzione all’altro, accoglienza, vicinanza amica sono le parole costituiscono la nostra umanità.
E quindi dobbiamo tentare di  realizzarle nel concreto perché non riproduciamo in cooperativa le stesse tendenze che cerchiamo di contrastare. Perché, per quanto attenti, ci è facile respirare l’aria cattiva e portarla nel nostro ambiente.
E qui mi rifaccio a una altro filosofo, questa volta Ebreo di nome Emmanuel Levinas che dopo aver vissuto nell’inferno dei campi di concentramento nazisti, ha concentrato la sua riflessione sul volto dell’uomo. Anche noi in cooperativa ma in qualsiasi ambito della vita incontriamo dei volti.
- Il volto, per Levinas,  è il luogo dell’incontro in cui si giocano tutte le dinamiche dell’uomo. L’incontro con il volto dell’altro provoca inizialmente il desiderio di eliminarlo, perché è diverso dal nostro. Noi spesso rifiutiamo, non accogliamo, perchè non vediamo il volto. Il soffermarsi sul volto dell’altro stabilisce la relazione. Quindi “soffermarci”. Levinas parla di “epifania”, intendendo il momento della scoperta della rivelazione della presenza dell’altro, con tutto il suo universo interiore, con tutta la sua umanità.
- Uno sguardo attento al volto dell’altro non permette l’odio o l’indifferenza: se riconosco, scruto, penso come cosa importante il volto dell’altro, non sono capace di indifferenza, né di odio.
- Il volto stabilisce un rapporto particolare (asimmetrico). Cioè: non è uguale quello che posso pretendere da me stesso da quello che posso pretendere dall’altro. Che significa che io non sono la misura di ciò che è giusto. Io farei così in questa o quella circostanza, ma è una scelta mia che non posso far diventare regola per gli altri. Altrimenti non li capisco, perché la mie regole di comportamento che voglio estendere agli altri diventano divisive.
- Il volto dell’altro è un “Eccomi ci sono” che chiede la nostra risposta, la nostra dedizione. Sì, la nostra risposta a qualsiasi domanda anche se ripetuta all’infinito, anche se ci sembra infantile, se ci sembra assurda. Tanto più se l’altro/a è una persona disabile che non ha tutte le capacità di comprensione come le abbiamo noi. Se non lo facciamo è perché evitiamo di guardare il suo volto e, forse saremo interessati ai suoi bisogni, ma non basta. L’assistente sociale è interessato ai bisogni ma non deve necessariamente amare chi ha davanti. Il volto ci chiede di più. Ci chiede considerazione, accoglienza di come si è, fino in fondo, superando l’ostacolo dei difetti e delle antipatie, dei fastidi che  provo davanti all’altro. Dobbiamo rifiutare la tentazione di essere professionisti della solidarietà, ma questo significa combattere l’atteggiamento rivolto verso il proprio volto, verso se stessi, per aprire una breccia verso l’altro.
 
Concludo. Una volta davanti a Gesù si presentò un giovane pieno di ricchezze. Questo giovane chiede a Gesù cosa deve fare per raggiungere la vita eterna. Gesù dà le sue indicazioni ma soprattutto dice il testo di Marco “lo fissò e lo amò”. Possiamo voler bene agli altri solo sostando sul loro volto, così potremo acquisire quella tenerezza necessaria che ogni uomo chiede al suo simile.
 
Ma è un cammino, l’obiettivo ci sta sempre davanti. Ma l’obiettivo è quello giusto e verso questo dobbiamo tendere per non perdere la nostra umanità.

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